Una firma jonica spicca nel novero dei nomi importanti che fanno parte della classe artistica, di notevole rilievo, a cui appartengono i cosiddetti “cantautori impegnati”: quelli delle melodie studiate, per niente superficiali, quelli dei testi delicatamente elaborati, quasi sembrano poesie da leggere senza supporto di note.
Parliamo di Mimmo Cavallo, nativo di Lizzano, amante della sua terra e del suo mestiere. Corteggiato da cantanti famosi ha scritto per nomi di prestigio quali Gianni Morandi, la giovanissima Syria, e signore della musica italiana, come la grande Mia Martini, la sofisticata Ornella Vanoni e l’inconfondibile Fiorella Mannoia (suo il celebre brano Caffè nero bollente).
Non solo, ma il “tarantino famoso” Mimmo Cavallo si è distinto anche per la pubblicazione di cinque suoi album personali (fino all’inizio degli anni ‘90) e, come chicca della sua carriera, il brano Ma che storia è questa scritta a quattro mani col giornalista Enzo Biagi, come sigla della trasmissione La storia italiana a fumetti, condotta dallo stesso Biagi alcuni anni fa.
Un tocco d’anima nei suoi testi dolci e talvolta rockettari con un vago sapore etnico, numerose colonne sonore per film: innovazione continua per l’Incantautore nostrano Mimmo Cavallo.
Entrare nel mondo della musica partendo dalla realtà del Sud: come è avvenuto? La nostra realtà del Sud io non la vedo così drammatica. Si deve essere contenti del Sud, non credo che ci siano stati grandi svantaggi rispetto agli abitanti del Nord nel campo musicale, tant’è che si parla di una scuola bolognese e genoana della musica, ma c’è anche una scuola partenopea, meridionale, pugliese: ricordiamoci di Modugno, di Celentano. abbiamo un sacco di nomi… Per me è stato un passaggio senza traumi; certamente le case discografiche più influenti stanno al Nord, per cui bisogna muoversi. Però ormai siamo in Europa, il fatto di spostarsi centinaia di chilometri non è un grande problema, al fine di produrre dischi. Io penso che l’atmosfera indispensabile per lavorare in un campo artistico come la musica, la pittura, lo scrivere, nel Sud sia ideale per avere l’ispirazione, per suonare uno strumento… La difficoltà di partire era più presente, forse, qualche decennio fa.
E allora, per poterti affermare, dove sei andato a cercare fortuna? A Roma! Io avevo il mito di Roma: da ragazzino mi piacevano i film romani… Andare nella Capitale per me era una tappa fondamentale. Ci sono arrivato a diciotto anni, ho fatto un giro di tutte le case discografiche; una volta si effettuavano bellissimi provini per sondare i giovani aspiranti cantautori, c’era uno al di là del vetro che ti giudicava negli studi. Io ho subito trovato pareri favorevoli: la prima volta ricordo che mi chiesero di comporre dei pezzi per Gabriella Ferri, la discografia era appannaggio della RCA, che oggi non esiste più, è una cosa che mi ha intristito tantissimo…
Nel 1980 ti affermi come cantautore impegnato; qual è stata l’occasione propizia per l’inizio della tua carriera? Lo dico con grande tranquillità ed anche con una punta di amarcord, perchè è stato un momento bellissimo ma anche una sorta di aneddoto, se vogliamo: mi trovavo alla RCA sempre per far sentire le “benedette” cassette, in uno studio dove c’erano cinque-sei persone col compito di visionare e ascoltare il materiale che io stesso avevo portato. Hanno preso la mia musicassetta, hanno cominciato a farla “girare” e, mentre suonavano i miei pezzi “sudati” (il sudore della mia vita!…) queste persone parlavano di altro. Ad un certo punto sono uscite fuori continuando a discutere animatamente ed io sono rimasto solo nella stanza, con la cassetta che mi girava davanti; in quel momento ho pensato: “Tutti matti! Uno viene qui…”. Ad un tratto entra un uomo con la barba, tutto infervorato a causa di un litigio con un collega, si siede, ascolta per dieci secondi il mio prodotto e mi chiede “è tuo questo pezzo?”. Io ho annuito e lui mi ha risposto “va bene, casomai ci vediamo dopo, all’uscita…”. Quell’uomo sarebbe diventato il mio produttore, lo era già di Baglioni: si trattava di Antonio Coggio. E’ stato fortuito l’incontro, il produttore si stava dividendo dalla RCA e cercava artisti nuovi da valorizzare. Quella stessa sera sono stato a casa sua e gli ho fatto ascoltare il resto del mio repertorio: da lì è nato il nostro rapporto professionale e dopo pochi anni ho inciso il mio primo disco.
Il tuo primo album si intitola “Siamo meridionali”: qual era la sua sostanza musicale e contenutistica? “Siamo meridionali” era la punta di questo piccolo iceberg che è la musica che produco io. La molla che ha fatto scattare il desiderio di chiamarlo così era la mia volontà di esprimere la passione che io ho sempre nutrito per la musica di stampo meridionale. Infatti da ragazzino adoravo ascoltare le canzoni di Renato Carosone, mi divertivo. In quell’album ho composto testi e musiche che riprendevano tale tradizione rivissuta attraverso il mio tipo d’arte. Comunque avevo inserito anche dei pezzi musicalmente più “contemporanei”; invece rimasi sorpreso, perchè i produttori apprezzarono molto i testi prima citati, pezzi tutti sentimentalistici, vibranti, solari, melodici. “Siamo meridionali” è la sintesi della mia formazione.
Cosa ricordi del paese in cui sei nato? Il rapporto che ho con la Puglia è continuo, non è possibile rinnegare le origini. Lizzano è un piccolo centro che ha anche dei problemi, ma ci torno spesso e volentieri, pur vivendo ad Ascoli Piceno ed avendo il mio studio di registrazione a Roma. Per due anni sono stato il direttore artistico a Taranto della rassegna musicale Provincia Estate: ho sempre cercato di sostenere con la mia esperienza le iniziative del luogo e di creare occasioni per fare esprimere nuovi talenti.
Che rapporti hai con la gente del nostro territorio? Con la gente del luogo natìo il rapporto può essere definito con un unico aggettivo: naturale. Per me è un legame innato, importante, e poi è impossibile non andare daccordo con la gente di tutto il Sud! (2001 – AlessandraC – Si ringrazia Vito Conversano per il permesso alla pubblicazione)
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